giovedì 29 dicembre 2011

Date a Cesare quel che è di Cesare. Lettera aperta a Francesca Saieva


di Enzo Barone

Cara Francesca
vorrei attraverso la tua autorevole rubrica di lettere stimolare una riflessione, che spero si trasformi presto in dibattito, in polemica persino, e più si infuoca e meglio è.
La pietra dello scandalo – tanto per entrare nella terminologia biblica – è la tanto dibattuta questione sulla liceità, il dovere, l’opportunità “politica” infine, che la Chiesa Cattolica paghi come tutti i comuni cittadini l’ICI sugli immobili che non sono propriamente destinati alla professione del culto.
E’ quello che si chiedono in tanti, anche molto ben al di là del recinto che contiene l’agguerrito popolo degli anticlericali.


L’impiegato, l’artigiano, il pensionato, il medio imprenditore - virtuosi o no nel passato poco importa - stretti tutti comunque dalla tenaglia implacabile dei sacrifici imposti dal governo per da qui a subito e chissà per quanti anni a venire, si chiedono senza tanti giri di parole perché l’ente etico per eccellenza, l’ONLUS più grande e capace economicamente in Italia (e probabilmente nel mondo) e soprattutto il riferimento altissimo per il retto agire di parecchi, cattolici e non, non sia stato chiamato, in un momento tanto drammatico, a fare la sua parte, come tutti gli altri attori della società italiana.
E siccome la nostra Costituzione tutela e solleva, giustamente, dalle imposte ogni luogo destinato a qualsivoglia culto, cosa si chiede in concreto?  Si chiede una cosa molto semplice: che si pervenga da parte dello Stato italiano al gettito fiscale quantomeno per tutti quegli immobili – e sono tanti – dai quali l’amministrazione ecclesiastica ricava un profitto. Alloggi per ferie, foresterie, collegi, educandati, strutture per l’ospitalità a vario titolo, insomma tutti quegli ambienti che operano anche da esercizi commerciali, che la Chiesa, come un qualunque operatore economico, mette sul mercato italiano, con effetti talvolta persino scorretti sul piano della lealtà della concorrenza con gli altri soggetti. Poiché tali offerte economiche messe sul mercato dagli enti religiosi sono così vantaggiose in ragione del fatto che esse sono sgravate da un consistente fardello fiscale (che per il vero non si limita alla sola esenzione dall’ICI).
Vorrei d'altronde ricordare ai lettori più distratti - non a te certamente Francesca, che queste cose insegni ogni giorno – che per onor del vero nel 1870 con la breccia di Porta Pia lo Stato italiano di fatto violò la sovranità di uno Stato estero, quello della Chiesa, nella sua piena potestà, provocando un vulnus, direbbero i giuristi, nei rapporti tra i due stati e che lo Stato italiano con l’annessione della Santa Sede incamerò anche buona parte dei patrimoni e degli immobili ecclesiastici, Vaticano escluso. Vulnus che i concordati,del 1929 prima e del 1984 poi, vollero sanare, oltre che sul piano diplomatico-giuridico, anche su quello economico, risarcendo con una serie complessa di benefit gli organismi religiosi. Solo in questa ottica si può in qualche misura comprendere l’esistenza di tutta una serie di “privilegi” goduti dalla Chiesa.
Ma oggi siamo nel 2011, a cento cinquant’anni da quei fatti, in una generale più matura consapevolezza della necessaria condizione di laicismo nel rapporto tra Stato e Chiesa e, ripetiamo, in una contingenza di originalissima drammaticità economica.
E con assoluto, ma incontestabile candore ci domandiamo: se anche il governo Monti non volesse o non potesse imporre un balzello di siffatta natura alla Chiesa, è giusto, è ammissibile che la Chiesa la Chiesa di Cristo e dei poveri, la Chiesa del “Date a cesare quel che è di Cesare…”, lei per prima, senza aspettare che qualcuno bussi alla sua porta, non chieda da sé stessa di essere ammessa a concorrere ai sacrifici cui sono obbligati tantissimi desolati, affannati suoi figli ?

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